Una delle accuse che viene mossa più spesso all'Italia, soprattutto dai paesi leader dell’Unione Europea, è quella di essere un paese “fermo”, poco incline al cambiamento e al rinnovamento. A cominciare da una classe politica che molto faticosamente è uscita dalle pastoie di tangentopoli e non si è ancora del tutto ripresa: l’età media dei nostri parlamentari è tra le più alte del mondo. Sono moltissimi gli eletti che vantano addirittura più di quattro legislature, a volte anche con tre formazioni politiche diverse. Un rinnovamento, insomma, solo di facciata ma non sostanziale.
Quando l’economia non si rinnova
Questa forma di tutela che porta la struttura più importante del paese, quella amministrativa, a non rinnovarsi, aderisce perfettamente a molte altre caratteristiche italiane. Per la stragrande maggioranza dei lavoratori del nostro paese, l’occupazione perfetta è quella statale: per tutta la vita e a tempo indeterminato, spesso senza alcun margine di carriera. L’importante è semplicemente il posto fisso.
Per molte aziende il dramma è diventato quello di farsi pagare: e in un paese dove il primo che pretende tutti i soldi in anticipo pur pagando le sue fatture in forte ritardo è proprio lo Stato, tutto questo porta a problemi non indifferenti.
L’economia fatica a rinnovarsi, gli investitori stranieri se ne vanno o non entrano nemmeno. I servizi peggiorano, a cominciare dalla sanità, ma soprattutto dalla scuola della quale alcuni prestigiosi istituti tratteggiano un quadro impietoso: il PISA, Program for International Studies Assessment, nello studio statistico sulle competenze degli studenti italiani, parla di gravi lacune in matematica elementare, inglese e persino italiano. I nostri studenti delle scuole dell’obbligo sono tra i meno preparati d’Europa. Siamo al minimo storico persino su elementi base come la semplice comprensione di un testo.
Il lavoro non sta al passo con l'economia europea
Tutto questo ha portato a una caratteristica che paradossalmente, nonostante tutta la fame di posto fisso che esiste dal dopoguerra a oggi ha una caratteristica drammatica: il precariato. Contratti di lavoro sempre più brevi e sempre più incerti, moltissimi rapporti di lavoro sporadici e occasionali fino anche ai 30-35 anni di età.
L’unico stipendio fisso è diventato la pensione: ed è per questo che sempre più famiglie sono costrette ad appoggiarsi agli anziani per sopravvivere. Anche questo è un quadro davvero impietoso: Alitalia viene addebitato una incapacità endemica, quasi culturale, di creare la cosiddetta “economia circolare”. Avere le materie prime per creare manifattura ed esportare.
Le grandi occasioni perdute
Questa occasione l’Italia l’ha persa da un pezzo, da quando ha deciso di credere di più nell’ industria pesante e delle grandi aziende statali e parastatali piuttosto che nel grande comparto agroalimentare che avrebbe offerto una posizione di eccellenza e che per molti anni è stato quasi abbandonato.
Le coste sono state in gran parte vandalizzate da grandi aziende inquinanti e si sono perse molte quote anche nel terziario e nel turismo. In pratica ci si ritrova ad affrontare ogni crisi macroeconomica – di media ogni quarto di secolo – ricominciando quasi sistematicamente da capo ma con un tessuto economico e politico sempre meno credibile e sempre più in affanno.
Il futuro è un’ipotesi
Di fatto la situazione è problematica ma ciò che più preoccupa è ovviamente il futuro, con una società sempre più vecchia, sempre meno competitiva che di fatto porta i giovani più validi all'estero verso mercati più ricchi e promettenti.
Il costo soprattutto dal punto di vista ambientale è molto alto perché il mancato rinnovamento delle aziende, delle industrie e delle economie, finisce per mettere in sempre maggiore difficoltà la prima risorsa italiana: l’ambiente e il paesaggio, con casi limite che costeranno carissimi.