La delusione per i mancati risultati del recente convegno ONU di Madrid COP25 è stata grande in tutto il mondo. In definitiva non si è deciso niente. Non solo, si è anche dovuto archiviare il comportamento decisamente poco collaborativo di Australia, Stati Uniti e Giappone che insieme al’India e al Brasile hanno mantenuto le solite posizioni estremamente rigide sul controllo del CO2 e sugli investimenti a favore delle energie alternative.
La posizione australiana al COP25 duramente attaccata
In questo momento nell’occhio del ciclone c’è l’Australia con il suo primo ministro Scott Morrison invitato da giorni e da più parti alle dimissioni per via delle sue teorie conservative sul clima e del fallimentare intervento contro i roghi che stanno devastando uno dei continenti più belli e ricchi del mondo. “Una posizione indifendibile nemmeno se fosse un amministratore bene attento a quello che gestisce” ha detto Greta Thunberg di Morrison che è stato attaccato anche in patria proprio per la manchevolezza e l’inerzia dei suoi interventi contro gli incendi che hanno incenerito interi chilometri quadrati di foreste.
Non molto meglio va a Bolsonaro, presidente del Brasile già nell’occhio del ciclone mesi fa dopo gli incendi in Amazzonia e che per altro dopo quella tragedia non ha assolutamente cambiato atteggiamento per quanto riguarda il clima mantenendo una politica molto più attenta alle industrie che al clima.
Gli Stati Uniti e il contentino da 90 milioni di dollari
La polemica tra gli ambientalisti e il presidente Donald Trump è vecchia di mesi e si è ulteriormente accalorata dopo i botta e riposta tra il leader statunitense, nel bel mezzo di un procedimento impeachment, e Greta Thunberg invitata dal capo di stato più potente del mondo a “darsi una calmata e andarsene al cinema”. Gli Stati Uniti sono stati in assoluto il primo paese a declinare qualsiasi proposta offerta dal COP25 per proseguire il lavoro del trattato di Parigi facendo a questo punto da spalla anche ad altri paesi in via di sviluppo che si sono sentiti autorizzati a rimbalzare qualunque proposta.
Al momento i paesi che hanno votato no a qualsiasi accordo, rimandando tutto al COP26 che si terrà l’anno prossimo a Glasgow sono anche Canada, Giappone e Arabia Saudita che per motivi diversi – soprattutto sfruttamento del sottosuolo e del nucleare – non vogliono accettare alcun tipo di imposizione. Di fatto una grande occasione mancata e un altro anno perso sulla strada del salvataggio rispetto al cambiamento climatico. I paesi che hanno detto no si sono limitati ad istituire un fondo per i paesi a rischio in particolare i piccoli arcipelaghi (44 isole in tutto) riuniti nell’AOSIS che rischiano di più da eventi disastrosi come uragani e maremoti. Novanta milioni di dollari come contentino. “Ma di fronte alla salvezza di popolazioni e delle loro case non ci sono prezzi che tengano” ha tagliato corto Greta che ha promesso nuove iniziative di sensibilizzazione da parte della sua associazione FFF.